Questo è il giorno perfetto del lavoratore medio, del quale io rappresento l’essenza. Per essere più precisi, come ebbe a dire Paolo Villaggio del suo personaggio divenuto Maschera, io rappresento “il prototipo del tapino, ovvero la quintessenza della nullità”.
Mi pare evidente, mi sento un tantino giù ed è decisamente in calo la stima che ho di me stesso. Così, moderno sfogo del tapino medio, grido il mio malessere in questo vasto deserto dell’esaltazione dell’ego che è la blogosfera.
Sono a lavoro adesso…cazzo…il capufficio…
Mi genufletto… ma solo per un po’. Metto da parte i miei impegni e penso al caffé di stamattina. E’ un momento Zen, che mi gusto fino in fondo raccolto nei pensieri più disparati. Una meditazione non codificata che appartiene alla tradizione partenopea: nella lenta schiuma che si addensa sulla fragranza delle miscele di caffé da supermercato, si fanno largo immagini rivelatrici dell’essenza stessa dell’essere. Ed è proprio in quel momento, proprio quello in cui sei convinto di aver capito qualcosa, quel momento in cui stai per raggiungere l’illuminazione, che c’è il cane che ti guarda, e reclama, con la zampetta alzata e lo sguardo triste, la strada marcata la sera prima; e così ti vesti e riprende tutto daccapo. L’auto, il traffico, l’ufficio, io, il capufficio. Ed il mio volto, il volto del cane, del collega che mi siede accanto, si sfumano il un indistinto misto, che rassomiglia inesorabilmente e perennemente a se stesso.
Privo di essenza, implodo in una dimensione infinitesima senza identità che mi catapulta in un nirvana chimico, avvinghiato nelle spire dissonanti delle note melanconiche di un cantastorie che sulla sua carta illustra, senza spettatori, la mia vita.
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